
È importante che tu capisca le mie foto, o è più importante cosa io voglia dire. O meglio, cosa io voglia dirmi?
Questa domanda, che a prima vista può sembrare un gioco retorico, è in realtà il cuore pulsante di ogni mio scatto. Ogni volta che prendo in mano la macchina fotografica, non sto solo componendo un’immagine: sto cercando una forma di verità. Una verità mia, soggettiva, silenziosa. Ma cosa succede quando questa verità incontra lo sguardo di chi osserva?
Spesso mi chiedo se chi guarda le mie foto debba necessariamente “capirle”, decifrarle come un messaggio in codice. O se, al contrario, il senso più profondo di ciò che faccio stia proprio nel lasciare aperta la lettura, nel permettere a ciascuno di rispecchiarsi, di trovarci dentro qualcosa di sé. Eppure, sotto ogni immagine, c’è sempre un impulso, un’esigenza che parte da dentro di me. È il desiderio di fissare un istante non per mostrarlo, ma per ascoltarlo. Per capire, attraverso l’atto del fotografare, cosa sto cercando di dirmi.
La fotografia, per come la vivo io, non è mai solo comunicazione. È anche introspezione. È una forma di scrittura silenziosa, dove la luce e l’ombra diventano parole che non avevo trovato il coraggio di pronunciare. A volte le mie foto sono domande che non so fare a voce. Altre volte, sono risposte che non sapevo di cercare.
E allora mi domando: se una mia immagine non viene compresa da chi la guarda, è un fallimento? O è semplicemente un’altra lettura, un’altra verità, ugualmente valida? Forse il senso della fotografia non sta nell’essere capita, ma nell’aprire spazi di possibilità. Nell’essere occasione di dialogo, con gli altri ma soprattutto con se stessi.
In fondo, fotografare è un modo per imparare ad ascoltarsi.