esprimersi con la fotografia

Esprimersi con la fotografia non è solo una questione tecnica, né una sfida creativa. È un tentativo di trasformare ciò che sentiamo in qualcosa che possiamo vedere. È il desiderio di raccontarsi quando le parole non bastano, o quando sembrano addirittura impossibili da trovare.
Nel mio caso, è nato proprio così: da un bisogno profondo di comunicare, ma senza sapere come farlo.

Non sono mai stato bravo con le parole. Scrivere non è mai stato il mio talento, e lo stesso vale per la pittura, il disegno, la musica. Eppure avevo – e ho tuttora – un mondo dentro da dire. Quando ho preso in mano per la prima volta una macchina fotografica, ho pensato: “Forse è questa la mia lingua. Forse riuscirò, finalmente, a farmi capire.”

Ma non è stato così semplice.

Quel giorno in cui ho pensato di smettere

Ricordo con precisione una giornata invernale, silenziosa e vuota. La luce era di quelle che ti spingono a uscire, sperando di trovare qualcosa da fotografare, anche se non sai bene cosa. Camminavo senza meta, cercando soggetti, ispirazione, un’emozione da raccontare.

Ho scattato diverse foto. Nessuna mi diceva nulla.

Rientrato a casa, ho aperto i file sul computer e li ho guardati uno a uno. Tecnicamente erano a posto. Ma mancava l’anima. Mancava quel qualcosa che avrebbe dovuto farle parlare.

E lì ho pensato: forse ho fallito. Forse non riesco a esprimermi con la fotografia, proprio come non ci sono mai riuscito con le parole. Ho quasi lasciato la fotocamera sullo scaffale, con l’idea di fermarmi, o almeno di rallentare.

Tutto e subito: il vizio moderno del fotografo emotivo

La verità? Ero impaziente.
Sono sempre stato uno da tutto e subito: ho bisogno di risultati, conferme, risposte immediate. È un vizio, forse, ma è anche parte di come sento le cose.
Mi aspettavo che la fotografia fosse una scorciatoia verso l’espressione. Pensavo bastasse saper “vedere” per riuscire a comunicare. E invece, come ogni linguaggio, anche quello fotografico va imparato. E richiede tempo, dedizione, ascolto.

Esprimersi con la fotografia è un processo. E ogni processo è fatto di momenti vuoti, di errori, di giorni in cui non succede nulla. Giorni in cui sembra che tutto quello che hai da dire sia nascosto dietro un muro.

Ricominciare con lentezza

Quella sensazione di fallimento, però, mi sta insegnando una cosa: non posso pretendere tutto subito da me stesso.
Ho bisogno di camminare, non correre.
Per questo ho deciso di rivedere il mio approccio. Niente più foto a caso, niente più uscite alla cieca. Ho cominciato a costruire un percorso fotografico a lungo termine.

Un piano. Una direzione.

Il primo passo è stato chiedermi: che cosa voglio dire, davvero?
Mi sono dato qualche giorno per pensarci, e poi ho risposto: voglio parlare di solitudine. Di quel senso di attesa, di sospensione, che spesso mi accompagna.
Da lì è nato “in attesa” il mio primo vero progetto personale

Esprimersi con la fotografia richiede pazienza e ascolto

Una delle cose che sto capendo, forse la più difficile da accettare, è che esprimersi con la fotografia non può essere un atto immediato.
È qualcosa che si costruisce nel tempo, anche quando i risultati sembrano non arrivare.
L’urgenza di comunicare è forte, certo. Ma non può essere soddisfatta tutta insieme.

Quando ho deciso di lavorare sul tema dell’attesa, l’ho fatto partendo da quello che avevo davanti tutti i giorni. Fermate dell’autobus, panchine vuote, marciapiedi consumati. Luoghi ordinari, quasi invisibili. Eppure, per me, rappresentavano perfettamente quello che sentivo dentro: uno spazio sospeso, tra il non più e il non ancora.

Ho cominciato così, uscendo la domenica mattina con un’idea in testa: cercare immagini che parlassero di attesa. Non per forza persone. Anche oggetti, ombre, tagli di luce. All’inizio mi sembrava che nulla funzionasse. Poi, poco a poco, le immagini stanno iniziando a raccontare. Non solo il mondo esterno, ma anche qualcosa di me.

E questa è stata la prima vera svolta.

La fotografia non è una scorciatoia, ma un linguaggio da imparare

Molti pensano che la fotografia sia una via più “semplice” rispetto ad altri linguaggi espressivi. In fondo basta una macchina, un soggetto, un clic.
Ma non è così.
Esprimersi con la fotografia è come imparare una nuova lingua. Le prime volte balbetti, usi frasi scontate, ti appoggi a formule che sembrano funzionare ma che non raccontano davvero chi sei.
Solo con il tempo – e con l’esperienza – cominci a trovare la tua voce.

Nel mio caso, ho smesso di cercare la “foto perfetta” e ho iniziato a cercare la foto vera. Quella che magari non vincerà concorsi, ma che porta dentro di sé una parte autentica del mio sentire.

E qui entra in gioco una domanda fondamentale, quasi da ricerca vocale:

“Come posso fotografare meglio ciò che provo davvero?”

La risposta è semplice da dire, ma difficile da vivere: ascoltandoti.
Guardando più dentro che fuori.
Accettando che non sempre le immagini saranno forti, ma che tutte – anche le più deboli – sono passi verso qualcosa di più profondo.

Darsi una direzione (e non solo un obiettivo)

In passato mi davo obiettivi rigidi: un certo numero di foto al mese, un certo stile da imitare, una scadenza da rispettare.
Oggi ho capito che serve qualcosa di diverso: una direzione.

Un cammino che abbia coerenza ma non rigidità, che possa crescere con me, che lasci spazio all’imprevisto.
Per esempio, nel progetto sull’attesa ho scoperto che mi interessava anche il modo in cui le persone si rapportano ai luoghi in cui sostano. Così, da fermate vuote, sono passato a fermate occupate da dei dettagli: un ombrello lasciato, una borsa poggiata a terra, lo sguardo di qualcuno in lontananza.

Mi sto lasciando guidare da ciò che vedo, ma anche da ciò che sento.

Non serve essere artisti. Serve essere onesti

Questo è il punto forse più importante di tutti.
Per fotografare non serve essere artisti nel senso classico. Non serve saper disegnare, scrivere poesie o comporre musica.
Serve essere onesti. Con sé stessi, prima di tutto.

Io non so disegnare. Non so suonare. Non so scrivere romanzi. Ma quando guardo una fotografia che ho fatto e sento che parla di me, allora sì, sento di aver detto qualcosa.

Ed è questo che voglio trasmettere: se anche tu non hai mai trovato un modo per dire quello che senti, la fotografia può essere la tua voce.

Una storia che ancora scrivo

Qualche settimana fa, sono tornato nello stesso punto in cui avevo pensato di mollare. C’era la stessa luce diffusa, lo stesso silenzio, la stessa assenza apparente di soggetti.
Ho tirato fuori la fotocamera, non per dovere, ma perché sentivo che c’era qualcosa da ascoltare.
Mi sono seduto, ho aspettato.

Ho scattato. Una sola foto.

Quando l’ho rivista sullo schermo, ho sentito qualcosa. Non era un capolavoro, ma era mia.
Raccontava esattamente ciò che provavo: un senso di tempo che scorre lento, di vita quotidiana, di emozione minima ma vera.
In quel momento, ho capito che esprimersi con la fotografia è una storia che non ha una fine. È una ricerca continua. Una scrittura fatta di luce e silenzio.

Conclusione: quando la fotografia diventa voce

Alla fine di tutto, se c’è una cosa che sto imparando è che la fotografia non risolve i nodi interiori, ma li rende visibili. E questo, in sé, è già un passo enorme.
Esprimersi con la fotografia significa trovare un modo per dire “io sono qui”, anche senza parlare. È un gesto silenzioso, ma profondo.

Se anche tu stai cercando una voce, se hai qualcosa da dire ma non sai da dove partire, ti invito a fare una cosa: prenditi del tempo. Pensa a cosa senti, poi prova a trasformarlo in un’immagine. Non deve essere bella. Deve essere tua.

Scrivimi, se ti va, raccontami come la fotografia ha cambiato il tuo modo di comunicare.
Hai mai avuto l’impressione che una tua foto stesse dicendo qualcosa che tu non sapevi ancora esprimere a parole?
Raccontamelo a info@simonezuin.it.

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