fotografare l’ordinario universale

Fotografare l’ordinario è diventato per me una necessità. Il modo di fotografare. Quando scatto, non cerco il colpo d’occhio, la bellezza scenica, l’effetto speciale. Cerco invece ciò che sembra banale, ciò che a uno sguardo distratto non meriterebbe attenzione. Lo fotografo perché so che lì dentro si nasconde qualcosa. Sottraggo ogni riferimento preciso, ogni indizio che possa ancorare quell’immagine a un luogo noto, e così facendo quel posto diventa tutti i posti, quella scena diventa tutte le scene. Universale, appunto.

In un mondo in cui tutto è geolocalizzato, etichettato, raccontato con la voce di chi c’era, io preferisco togliere. Ridurre. Lasciare che l’immagine dica da sé. Fotografare l’ordinario universale, oggi, è quasi un atto di resistenza: contro l’eccesso, contro l’ovvio, contro la necessità di spiegare tutto. È un invito alla pausa, alla visione lenta, all’ascolto silenzioso.

Un episodio che ha cambiato il mio modo di vedere

Ricordo una mattina d’inverno. Ero uscito di casa con l’idea di trovare qualcosa da fotografare, senza avere un vero obiettivo. Una di quelle giornate in cui l’aria è densa, ferma, quasi irreale. Dopo un’ora a vagare, mi sono fermato davanti a una pensilina di autobus nel nulla. Niente intorno: solo un campo, una panchina arrugginita e un cartello storto. Ho scattato. Uno scatto solo.

Quando, giorni dopo, ho rivisto quell’immagine, ho capito che non stavo più cercando soggetti. Stavo cercando luoghi che potessero essere ovunque. Volevo che chi guardava non pensasse “ah, qui ci sono stato”, ma piuttosto “questa scena mi somiglia”. Lì è nato tutto. Da una fermata qualunque, senza nome, senza storia apparente. Ma che parlava.

Da quel momento ho iniziato a interrogarmi: cosa rende una fotografia davvero universale? E, soprattutto, come si fa a fotografare l’ordinario universale senza cadere nella banalità?

Cosa rende una scena “universale”

Non è solo questione di soggetto. Non basta fotografare una sedia, un muro, una strada per renderla significativa. È una questione di sguardo. Di scelta. Di distanza emotiva e di partecipazione insieme. Fotografare l’ordinario universale significa avvicinarsi a qualcosa con rispetto, senza cercare di dominarlo, ma lasciandolo semplicemente accadere.

Spesso mi accorgo che le immagini che funzionano di più sono quelle dove ho lasciato andare il controllo. Dove non ho imposto una composizione rigida, ma ho lasciato che le linee, le ombre, i vuoti si organizzassero da soli. C’è qualcosa di profondamente umano nell’ordinario, qualcosa che ci mette in contatto con la nostra fragilità. Una bicicletta abbandonata, un tappeto di foglie su un marciapiede, una finestra socchiusa: sono frammenti che parlano, che ci raccontano senza bisogno di didascalie.

Fotografare l’ordinario universale non è quindi un esercizio tecnico, ma un atto poetico.

Universalità e sottrazione

Il gesto più potente, spesso, è togliere. Togliere il colore, togliere il contesto, togliere le persone. A volte persino togliere il titolo. Lo faccio spesso anche nei miei progetti: se un’immagine è troppo “descrittiva”, perde qualcosa. Se è troppo ancorata a un luogo, rischia di diventare didascalica. Se invece riesco a rimuovere il superfluo, a lasciare solo l’essenziale, allora quella fotografia può aprirsi a chi guarda. Può essere anche sua.

Per questo motivo, nei miei lavori, uso spesso tagli stretti, inquadrature minimali, oppure cerco punti di vista che sfuggano alla geografia. L’intento non è nascondere, ma far emergere. Togliere per rivelare. Lo sguardo si allena col tempo, e più lo alleni, più riesci a vedere l’universale dove prima vedevi solo abitudine.

In effetti, se ci pensi, il minimalismo visivo è una chiave perfetta per fotografare l’ordinario universale. È come una lingua senza fronzoli, che parla dritta al cuore.

Affinare lo sguardo: un esercizio quotidiano

Fotografare l’ordinario universale non è questione di fortuna o ispirazione momentanea. È qualcosa che si coltiva ogni giorno. Come un allenamento. Ogni volta che esco con la macchina fotografica, anche senza un’idea precisa, metto alla prova il mio modo di osservare. E ogni volta mi sorprendo: c’è sempre qualcosa che prima non avevo notato.

Uno dei primi esercizi che ho fatto, quando ho iniziato a cercare questo tipo di immagini, è stato camminare nella mia frazione con l’intento di trovare almeno una fotografia interessante al giorno. Non importava quanto anonimo fosse il luogo: l’obiettivo era vedere, non solo guardare. Col tempo, ho iniziato a trovare bellezza nei cassonetti, nei cartelli scoloriti, nei muri scrostati. E non era una bellezza ironica o provocatoria, era una bellezza silenziosa. Una che non chiede attenzione, ma la merita.

Molte volte mi sono sentito in difficoltà. Pensavo: “Ma che senso ha fotografare questo?”. Poi riguardavo gli scatti, e mi accorgevo che, nella loro semplicità, restituivano qualcosa di vero. Fotografare l’ordinario universale richiede fiducia. Fiducia che ciò che stai guardando contenga già tutto.

Il rischio della retorica del banale

C’è però un pericolo sottile, e mi sento di condividerlo: quello di cadere nella retorica del banale. Non basta fotografare un oggetto comune per dargli dignità. Il rischio è di trasformare l’ordinario in decorazione, di estetizzare il vuoto senza dargli un significato.

Ho visto immagini tecnicamente perfette di muri, finestre, pali della luce. Ma a volte mancava qualcosa. Mettevano in scena il banale, ma non lo interrogavano. Non c’era tensione, né domanda, né apertura. Una foto dell’ordinario che non si apre all’universale rischia di essere solo un esercizio di stile.

Per questo è importante domandarsi, ogni volta: “Perché sto fotografando questo?”. La risposta non deve per forza essere chiara, ma il gesto deve essere sincero. Non si fotografa per compiacere, ma per condividere una visione.

Maestri che hanno indicato una via

Quando ho iniziato a interrogarmi su tutto questo, mi sono avvicinato alle fotografie di alcuni autori che hanno saputo rendere universale l’ordinario in modo autentico. Luigi Ghirri, con le sue inquadrature leggere e poetiche, è stato per me un punto di riferimento. Le sue immagini non raccontano il luogo in cui si trovano, ma il modo in cui quel luogo esiste nel nostro sguardo.

Allo stesso modo, Guido Guidi ha saputo costruire un linguaggio fotografico fatto di attese, silenzi, piccole cose. Non cerca la spettacolarità, ma si ferma, osserva, registra. Il suo è uno sguardo lento, rispettoso. In questo mi ci ritrovo molto.

E poi ci sono autori come Stephen Shore o William Eggleston, che hanno fatto della quotidianità americana un atlante visivo universale. Non si sono accontentati di mostrare, ma hanno cercato – attraverso il colore, la composizione, la serialità – di elevare ciò che solitamente si ignora.

Se vuoi approfondire il modo in cui la fotografia può raccontare storie silenziose partendo dalla realtà più semplice, ti consiglio questo interessante artico:
👉 How Photography Shapes Our Perception of Reality

E se invece vuoi leggere una riflessione personale sul mio percorso in questa direzione, ti suggerisco questo contenuto interno al blog:
👉 Fotografare con passione

Come posso fotografare meglio l’ordinario?

Una delle domande che mi fanno più spesso è proprio questa. E credo che non ci sia una sola risposta valida per tutti, ma alcune cose le ho imparate nel tempo.

Prima di tutto: bisogna rallentare. Non si può fotografare l’ordinario universale se si corre. È solo rallentando che iniziamo a vedere davvero. Poi, bisogna osservare senza preconcetti. Non cercare qualcosa di interessante: lascia che sia ciò che incontri a parlarti. Infine, bisogna scattare con sincerità. Senza pensare a chi guarderà, ai like, alle reazioni. Scatta per dire qualcosa, anche se non sai esattamente cosa.

E poi torna, spesso, nello stesso posto. Perché i luoghi, come le persone, si rivelano lentamente. Più li osservi, più diventano profondi.

Una responsabilità dello sguardo

Quando scegli di fotografare l’ordinario universale, ti prendi una responsabilità. Non solo verso ciò che stai inquadrando, ma verso chi guarderà quella fotografia. Perché stai dicendo: “Questo vale la pena di essere visto. Questo, che normalmente passa inosservato, contiene qualcosa di importante”. È un gesto che ha una sua etica.

Non si tratta solo di tecnica, né solo di estetica. Si tratta di prendersi cura dello sguardo. Di restituire valore a quello che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno, ma che troppo spesso ignoriamo. E se ci pensi, è proprio in questo che la fotografia può ancora dire qualcosa. In un tempo fatto di velocità, eccessi, sovrastimolazioni, può scegliere la via opposta: quella della sottrazione, della lentezza, dell’ascolto.

Questo tipo di fotografia non urla. Non cerca di stupire. Non ti chiede di ammirarla, ma di sentirla. È una fotografia che accompagna, che suggerisce, che resta. E forse, proprio per questo, è quella che ci tocca di più. Perché ci somiglia.

Una pratica che cambia anche chi fotografa

Col tempo, mi sono accorto che questo modo di fotografare ha cambiato anche me. Mi ha insegnato a guardare con più attenzione, non solo quando ho la macchina in mano. A rallentare, anche nella vita. A trovare connessioni dove prima vedevo solo automatismi. Non è solo una pratica artistica: è un modo di abitare il mondo.

E ogni volta che una persona guarda una mia foto e mi dice “questa scena potrei averla vista anch’io”, sento di aver raggiunto il mio obiettivo. Non perché ho mostrato qualcosa di nuovo, ma perché ho permesso di rivedere l’antico con occhi diversi.

Fotografare l’ordinario universale è, alla fine, un gesto semplice. Ma dentro quella semplicità si nasconde tutta la complessità del nostro rapporto con il mondo. Un rapporto fatto di attese, di silenzi, di piccole rivelazioni quotidiane.

Conclusione: fermarsi a guardare

Se sei arrivato fin qui, forse anche tu senti il bisogno di rallentare, di restituire senso alle cose che sembrano inutili. Di dare voce a quello che resta ai margini, di riconoscere un valore nelle pieghe della quotidianità. Allora ti invito a provarci. A uscire domani, con o senza macchina fotografica, e guardare. Non cercare niente. Lascia che sia il mondo a trovarti.

E poi torna a casa, rivedi le immagini. Forse, tra quelle fotografie apparentemente banali, ne troverai una che ti parla. E se succede, sarà il primo passo verso qualcosa di più profondo.

Se anche tu hai vissuto un’esperienza simile, se stai cercando il tuo modo personale di raccontare l’ordinario, mi farebbe piacere leggerlo. Scrivimi a info@simonezuin.it: mi interessa il tuo sguardo, la tua storia.