la fotografia è fotografia, qualsiasi essa sia

Viviamo in un’epoca in cui tutto tende a essere classificato, etichettato, suddiviso. Anche la fotografia. Paesaggio, ritratto, street, reportage, concettuale… Categorie nate per orientarsi, per comunicare meglio, ma che spesso diventano gabbie. Codici da rispettare. Linee guida da seguire. E allora mi domando: è davvero necessario?

La mia risposta è no. La fotografia è fotografia, qualsiasi essa sia.

Non c’è bisogno di incasellare uno sguardo per dargli valore. Non serve che un’immagine abbia un’etichetta per emozionare, raccontare, colpire. Ogni fotografia nasce da un incontro irripetibile tra chi guarda e ciò che viene guardato. È un atto unico, fragile e potente. È testimonianza, rivelazione, mistero.

Certo, le categorie possono essere utili. Possono servire a studiare, a organizzare, a orientare un pubblico. Ma non devono mai diventare confini rigidi. Perché la fotografia vera — quella che resta — è sempre qualcosa che sfugge alle definizioni.

Ci sono fotografie che raccontano senza dire, che toccano senza spiegare. Una parete scrostata, un volto in ombra, una strada vuota sotto la pioggia: frammenti di mondo che non appartengono a nessun genere, se non a quello della sensibilità.

Grandi fotografi ci hanno insegnato proprio questo. Luigi Ghirri fotografava insegne, cartoline, cieli anonimi, case suburbane. Era paesaggio? Era concettuale? Era poesia. Punto. Mimmo Jodice cercava la classicità dentro i corpi e le rovine, ma il suo sguardo era fuori dal tempo. Vivian Maier, scoperta per caso, ci ha lasciato immagini di una forza straordinaria, senza mai pensare a un “genere” da seguire. Solo immagini, libere, vive.

Rifiutare la classificazione non significa rifiutare la ricerca, l’approfondimento, lo stile. Al contrario: significa mettere al centro lo sguardo, la visione, la voce unica di ogni fotografo e fotografa. Significa guardare con onestà, senza chiedersi a quale categoria appartenga ciò che stiamo vedendo.

Ogni fotografia — anche la più tecnica, anche la più casuale — può avere dignità. Può toccare, suggerire, aprire una domanda. Anche una foto sfocata di famiglia, un’istantanea rubata per strada, una scena apparentemente insignificante.

La fotografia non è una gara di perfezione né una corsa al riconoscimento. È, prima di tutto, una forma di presenza nel mondo. Un modo per dire “io c’ero”. Un modo per ascoltare.

E allora, lasciamo che le fotografie siano solo fotografie. Senza confini. Senza etichette. Solo immagini, e silenzio.