
Quando viaggio, mi ritrovo spesso a fare due tipi di fotografia. Da un lato ci sono quelle immagini che sembrano inevitabili: i monumenti più noti, i panorami da cartolina, le vedute che chiunque, passando da lì, si sente in dovere di catturare. Sono fotografie “giuste”, rassicuranti, spesso anche belle. Servono a dire: “ci sono stato anch’io”, a raccontare una presenza, una tappa, una testimonianza.
Ma poi ci sono le altre. Quelle che arrivano in silenzio, quasi di nascosto, e che spesso sembrano insignificanti agli occhi degli altri. Sono fotografie più intime, a volte fuori fuoco, sbilanciate, persino imperfette, ma contengono qualcosa che nessun’altra immagine potrebbe restituire: una risonanza personale, un frammento del proprio sguardo sul mondo. Sono quelle che non nascono per essere mostrate, ma per essere ricordate. Non parlano di dove si è stati, ma di come ci si è sentiti.
Queste fotografie non cercano il consenso, non si appoggiano sull’ovvio. Spesso si rivelano molto dopo lo scatto, quando tornano alla mente come visioni che ci aiutano a comprendere qualcosa di più profondo sul nostro modo di vedere. Sono le uniche che, con il tempo, resistono davvero. Le sole che riconosco come “mie”.
Credo che ogni fotografo, prima o poi, arrivi a distinguere questi due livelli del fare immagini: uno più esteriore, orientato alla documentazione e al riconoscimento, e l’altro più interiore, che affonda nel sentire e nell’urgenza di capire qualcosa attraverso lo sguardo. Entrambi sono legittimi, entrambi fanno parte del viaggio. Ma è nel secondo che si costruisce, giorno dopo giorno, un linguaggio personale.
E forse è proprio in questo doppio movimento — tra il vedere e il sentire, tra il mostrare e il cercare — che la fotografia smette di essere solo un ricordo e diventa, invece, una forma di pensiero.