
Quando la perfezione fotografica diventa una trappola
Ricordo benissimo il giorno in cui ho capito di essere stanco. Non stanco nel corpo, ma nella testa. Ogni volta che prendevo in mano la macchina fotografica, sentivo quella pressione silenziosa che mi spingeva a realizzare “la foto perfetta”. Ogni scatto era un banco di prova. Ogni inquadratura, un esame. Ogni piccolo errore, una delusione.
La perfezione fotografica mi sembrava l’unica meta possibile. Ma quella tensione continua aveva trasformato qualcosa di bello in qualcosa di pesante. E quando ho smesso di rincorrerla, tutto è cambiato.
L’illusione dell’immagine impeccabile
All’inizio del mio percorso fotografico, guardavo le immagini dei grandi fotografi e cercavo di imitarli. Volevo il contrasto perfetto, la composizione impeccabile, la luce millimetrica. Credevo che solo raggiungendo quel livello potessi davvero dire di essere un fotografo.
Ma col tempo ho iniziato a notare una cosa: alcune delle immagini che più mi emozionavano non erano perfette. Anzi, erano piene di piccole sbavature, zone fuori fuoco, luci imprecise. Eppure, parlavano. Davvero.
Quella consapevolezza ha aperto una breccia.
Un’esperienza che ha fatto la differenza
Una mattina d’inverno, durante un’uscita solitaria nei pressi della Valtenesi, ho fatto una foto con la pellicola. La luce era strana, c’era foschia. Il cavalletto era leggermente inclinato, ma non me ne sono accorto subito. Ho scattato comunque. Quando ho sviluppato il rullino, quella foto mi ha colpito.
Non era nitida. L’orizzonte era storto. Ma dentro c’era qualcosa: l’atmosfera, il silenzio, il mio respiro lento. Era autentica. Non perfetta, ma vera. E mi rappresentava più di tanti scatti “giusti”. Anche per questo rimarrà solo mia.
Quel momento è stato uno spartiacque. La perfezione fotografica ha smesso di essere l’obiettivo. Ho iniziato a cercare altro.
La fotografia come linguaggio, non come dimostrazione
Spesso pensiamo che una bella foto sia quella che raccoglie consensi. Che riceve like. Che tutti riconoscono come “ben fatta”. Ma io ho capito che la fotografia è prima di tutto un linguaggio. E come ogni lingua viva, ha bisogno di essere personale, non corretta a tutti i costi.
Ho cominciato a liberarmi dei dogmi. Ho iniziato a giocare. Ho lasciato che l’errore fosse parte del processo. Ho riscoperto il gusto dell’imprevisto. E soprattutto ho cominciato a raccontare me stesso.
Perché inseguire la perfezione fotografica ci allontana dalla creatività
Quello che ho vissuto è comune a molti. La ricerca ossessiva della perfezione fotografica può bloccare la spontaneità. Ti ritrovi a scattare con la testa, non con gli occhi o con il cuore. Ti confronti sempre con qualcosa di esterno, mai con te stesso.
Eppure, è nell’imperfezione che troviamo l’identità. In quella leggera sfocatura che racconta un movimento. In un controluce un po’ bruciato che parla di luce intensa. In un’esposizione sbagliata che diventa poetica.
Il ruolo del giudizio esterno
Una parte di me ha sempre voluto l’approvazione. Mostrare le foto e sentirmi dire “bella!”. Ma a un certo punto mi sono chiesto: “Perché scatto? Per chi lo faccio davvero?”.
È stato lì che ho deciso di cambiare rotta. Non volevo più accontentare un ipotetico spettatore. Volevo ascoltarmi. La mia voce. I miei occhi. Il mio modo di sentire i luoghi, le persone, i dettagli.
Liberarsi dal giudizio è difficile. Ma è il primo passo per una fotografia autentica.
Una nuova libertà creativa
Da quando ho smesso di inseguire la perfezione fotografica, mi sento più libero. Esco a fotografare con meno aspettative e più curiosità. Mi concedo il lusso di sbagliare. Di giocare. Di provare tecniche che non conosco bene. Di lasciare spazio all’istinto.
Ho iniziato a portare con me un taccuino per annotare sensazioni più che appunti tecnici. Questo mi ha aiutato a dare valore non solo al risultato, ma anche al percorso.
Riscoprire il senso dell’attesa
Spesso, cercare la perfezione fotografica significa voler controllare tutto. Ma la fotografia, almeno per come la vivo io, è anche attesa. È stare in un luogo e respirare. È guardare senza scattare. È capire che certe immagini arrivano solo se sei disposto a rallentare.
L’attesa è imperfetta per natura. Non segue schemi. Ma regala visioni che non si trovano inseguendo solo la tecnica.
Lasciare andare per ritrovarsi
Il cambiamento più importante è stato questo: ho lasciato andare l’ossessione e ho ritrovato la passione. Ho smesso di misurare ogni passo e ho iniziato a camminare davvero.
Questo non vuol dire trascurare la tecnica. La conosco, la studio, la rispetto. Ma non la metto più al centro. La uso come strumento, non come fine.
La mia fotografia oggi è più leggera, più personale, più viva. E ogni volta che rivedo quella foto stortina e piena di nebbia, sorrido. Perché lì dentro ci sono io.
Non serve essere perfetti, serve essere presenti
Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni è che la bellezza autentica nasce dalla presenza, non dalla perfezione. Essere davvero lì, con il proprio sguardo e la propria sensibilità, vale più di mille regole.
E tu? Hai mai sentito il peso della perfezione fotografica? Hai trovato anche tu un momento in cui hai deciso di lasciarla andare?
Mandami una e-mail con la tua personale esperienza. Oppure dai un’occhiata a questo articolo dove racconto quanto sia importante uscire a fotografare da soli, un altro passaggio fondamentale del mio percorso.
Forse non è coerente con questo articolo, ma mentre lo scrivevo pensavo a questo intervento di Brene Brown, che comunque ti consiglio di guardare.